(Articolo di Elvira C.)
Se fra qualche secolo gli storici del futuro dovessero ritrovare e analizzare le lapidi presenti oggi nelle piazze o nei cimiteri, potrebbero pensare che nel Friuli del ventunesimo secolo si parlasse esclusivamente in italiano. Ma noi sappiamo bene che la realtà è molto più sfumata. Lo stesso vale per i popoli antichi. Esaminando le iscrizioni su monumenti e lapidi rinvenuti negli scavi di Aquileia, potremmo essere portati a credere che tutti gli abitanti del tempo parlassero latino. In verità, quella era la lingua della cultura, dei magistrati, dei letterati e delle élite. Il popolo, invece, si esprimeva in una forma più semplice e informale: il latino volgare, chiamato anche sermo rusticus. Di questa lingua parlata, purtroppo, non ci sono giunte molte testimonianze scritte. I contadini e i servi non avevano i mezzi né il ruolo sociale per lasciare epigrafi o pagarsi monumenti. Tuttavia, il latino volgare era vivo e pulsante, e cambiava da regione a regione, influenzato dai popoli locali che abitavano l’Impero Romano. Proprio da queste variazioni regionali del latino parlato sono nate, nei secoli, le lingue romanze (o neolatine). Tra queste, il friulano: nato dal latino rustico dell’area aquileiese, è stato arricchito da elementi celtici, e successivamente da influssi slavi e germanici. Tracce dell’antica lingua locale si possono riconoscere ancora oggi anche negli altri dialetti locali, compresi quelli parlati nelle nostre Valli di origine slava. In conclusione, le lingue non si trovano scolpite nella pietra, ma si nascondono nei suoni della quotidianità, nei racconti tramandati oralmente, nelle parole che resistono al tempo. Capire da dove veniamo linguisticamente è anche un modo per capire meglio chi siamo oggi.