19.02.2021, La grande paura della notte

   Era davvero coraggioso il mežnar (sacrestano o nonzolo) del nostro paese: andare a suonare l’Avemaria a piedi, nella notte che volgeva all’alba e nel tramonto che sconfinava nella notte, in una chiesa un po’ distante. Il clak-clak della pesante serratura, l’avvicinarsi alle corde in un ambiente ormai, o ancora, inghiottito dalle tenebre. L’Avemaria qualche batticuore ai sacrestani certamente l’avrà anche dato: vecchie paure, la sensazione di essere spiati da qualcuno, la presenza di qualche animale. La loro meritoria azione, mai sufficientemente pagata o riconosciuta, rappresentava quotidianamente il confine tra il giorno e la notte e tra la notte e il giorno, il margine fra la luce e le tenebre. Si chiamava “Avemaria” e non “Padrenostro” perché invitava a pregare la Madonna protettrice. Il suono della sera segnava l’estremo confine del giorno e obbligava al ritiro completo, specie delle giovani e dei ragazzi, perché era giunta l’oscurità. Il giorno, infatti, cedeva il passo al buio con le sue inquietanti presenze e con le entità amanti delle tenebri. La condizione oppressiva di queste nostre famiglie numerose era consolata dalla recita familiare del Rosario, ogni sera. Il suono dell’Avemaria richiamava i paesani alla preghiera e alla lode divina e serviva anche per scandire le fasi della giornata.

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