“Quel giorno all’ospedale di Cividale era in programma un’amputazione. In tre minuti sono riuscito a staccare la parte malata del braccio del poveretto e a cauterizzare il moncone rimasto. Ho ricevuto calorosi applausi dalle persone presenti in sala operatoria”. Dunque, un tempo si operava a mani nude, indossando un grembiule allacciato sui vestiti con cui si usciva da casa e quello che si potrebbe definire “sala operatoria” era una stanza piuttosto trafficata. Gli strumenti chirurgici a volte erano sporchi o comunque frettolosamente lavati nel lavandino. Bisognava attendere la fine di quel secolo per vedere finalmente i camici bianchi, i guanti di gomma (1895), le cuffie per coprire i capelli e le mascherine di garza (1899). Tra i medici la mortalità era elevata: dissezionavano senza protezione i cadaveri dissepolti, eseguivano autopsie su corpi infettati. Potevano contrarre infezioni irreversibili anche tramite piccoli tagli alle mani. Bisognava attendere il 1850, grazie a un medico ungherese, che per dimezzare il rischio di infezioni era necessario da parte dei medici lavarsi le mani. I primi gas anestetici arrivarono a Cividale a fine Ottocento e fino a prima le operazioni si svolgevano da svegli, magari con un bicchierino di grappa prima di essere sottoposti al taglio della carne.