La lavorazione della pelle si sviluppò già nell’XI secolo a Cordova (Spagna) e si estese in breve tempo a tutto il continente, al punto che il termine “cuoio” si trasformò in cordovano per antonomasia. Durante il periodo della Serenissima, Venezia fu un laboratorio del cuoio. Si produceva persino la “carta” da parati decorata con intagli e sovra elementi. Se nella capitale la lavorazione aveva raggiunto livelli di gran qualità, nelle periferie la materia prima era utilizzata per gli usi quotidiani, pratici, essenziali. La pelle dei bovini era consegnata agli scorzieri o conciatori che tagliavano le code, scarnavano gli ultimi resti, toglievano altre parti di scarto ed eseguivano un primo lavaggio nell’acqua corrente del Natisone, dov’era lasciata per una notte alla vigile presenza di una o più guardie. Il giorno successivo disponevano le pelli nei calcinai opportunamente preparati con quella che era chiamata japno o japna, la calce viva reperibile abbastanza facilmente. Le pelli erano immerse per un paio di giorni, estratte, lavate, nuovamente immerse e solo dopo una ventina di giorni i nostri artigiani provvedevano alla depilazione, cui seguiva una “purgatura” nell’acqua corrente del fiume per togliere i residui della calce. Dopo il lavaggio cominciavano le vere e proprie operazioni di concia con la creazione di una superficie omogenea, resistente e con tonalità che andavano dal marrone alla doratura.