Erano due i forni attivi in paese nella prima metà del Novecento: Celesta e Markici. In essi si cuocevano le gubane, le focacce, le colombe, il pane e a volte gli arrosti, quando il forno era ancora caldo da precedenti cotture. Era un autentico privilegio possedere un forno, perché nella cucina dei poveri non si andava oltre la polenta costituita anche da cereali ancor più poveri (quali il miglio e il sorgo), oppure il pesce pescato nel Natisone, fiume che sfamò molti dei nostri antenati. Il pane era piuttosto costoso e dunque un alimento proibitivo, mentre oggi se ne getta in grandi quantità nel bidone. Il costo del sale nella cucina del periodo veneziano era anch’esso proibitivo perché gestito in monopolio dalla Serenissima. Il sale era comunque un problema: partivano da Ponteacco in bici e raggiungevano l’emporio del sale di Trieste con un viaggio che durava almeno due giorni. Il mais, la patata e i fagioli giunsero nelle Valli verso il Seicento e la loro coltivazione fu favorita dalla Serenissima proprio per combattere la fame. Si trattò di un’autentica rivoluzione culinaria