11.01.2022, A pranzo o a cena nel passato (1/2)

   Quale poteva essere un pranzo, oppure una cena in paese fino a una cinquantina d’anni fa? Parliamo di piatti popolari, quelli che si potevano assaggiare nei giorni feriali. Si trattava di una cucina molto saporita, con piatti sostanziosi tali da sfamare le persone sottoposte a grandi fatiche fisiche. Le famiglie erano numerose e la quantità complessiva delle pietanze preparate era assai consistente. In un pranzo feriale, consumato al riparo dei rigori dell’inverno, non poteva mancare la minestra d’orzo, di verza, di brovada o di fagioli spesso con le “tajadeje”, striscioline di pasta le cui origini risalgono alla cucina mitteleuropea dove ancor oggi sono diffuse. Si “affossava” sul furnèl una grossa pentola da almeno cinque litri di capacità, collocandola dopo aver tolto un paio di “rinke” (anelli) della piastra in modo che il fuoco lasciasse una striscia nera sul fondo del recipiente di almeno un paio di centimetri. Assieme all’ingrediente di base, che poteva essere l’orzo o la verza tagliata a striscioline oppure i fagioli, si inseriva nell’acqua un pezzo di cotenna di maiale, costituita dal lardo e dal lembo di pelle. Non esisteva il dado e non si condiva con l’olio, ma si aggiungevano le piante aromatiche di base, che tutti conosciamo quali l’alloro. Ad ebollizione dell’acqua, contemporaneamente all’aggiunta dell’ingrediente principale, si inserivano due muset che aggiungevano sapore diventando essi stessi ancor più saporiti. La minestra della nonna era squisita. Dopo averla consumata, si mangiava un pezzetto di muset accompagnato dalla polenta. La domenica era il giorno del brodo, generalmente di gallina, in questo caso ben condito con l’olio.

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