Nell’osteria del paese si somministrava principalmente (o quasi solo) vino, servito non in bottiglia, ma in caraffe dal vetro trasparente. Tutte le osterie possedevano i recipienti da mescita, dall’ottavo ai due litri, che ogni anno dovevano essere tarati in Comune. Il “tubo” era da 1 litro, la foglietta da mezzo litro, il quartino, il chirichetto -scritto così- da un quinto e il sospiro da un decimo (ombra nel trevigiano, tajùt in Friuli, tàj da noi). Solo a cavallo degli anni ’50 e ’60 comparve in bar, dalla Diana, la macchina del caffè costituita dal tipico braccetto porta filtro a un beccuccio e da una leva in posizione verticale, lunga circa mezzo metro. L’operatrice imbracciava la leva tirandola verso il basso, la rilasciava in modo che un sistema di molle comprimessero l’acqua bollente da cui poi fuorusciva goccia a goccia il caffè. Non mancava la grappa, il vermut e la marsala, mentre i ragazzini potevano consolarsi con la spuma arrivata negli anni ’60 o con l’aranciata Recoaro contenuta in piccole bottigliette di vetro zigrinato. La birra era diffusa. Si beveva soprattutto la Moretti che sponsorizzava il proprio prodotto con il famoso nonno dai lunghi baffi, ritratto sui calendari con il datario a rotelline per i giorni e la settimana. Prima della ditta Enovalli, la distribuzione dal dopoguerra era effettuata dalla ditta Piccoli di Vernasso che provvedeva a rifornire tutte le osterie del territorio. Aveva un magazzino negli scantinati dell’ex-macelleria Beuzer e un altro vicino all’edicola. Vedremo da vicino la storia delle osterie del nostro paese, iniziando da quella del bisnonno di Mabira, Tonza, anni ’30.