C’era anche un divano di colore scuro dove si poteva eventualmente attendere il proprio turno. Probabilmente c’era anche un secondo tavolo e certamente una grande macchina da cucire. Cèser era sempre presente nel suo laboratorio, tutti i giorni della settimana, comprese le domeniche, dalla mattina alla sera. Di lavoro ne aveva sempre tanto e continuamente andava gente a ritirare i vestiti o a lasciare le proprie misure. C’era l’abitudine tipica di paese di fare un salto da Ceser, così come anche da Maria e Nilo, per scambiare quattro chiacchiere dove, è doveroso dirlo, il pettegolezzo non è mai stato di casa. Più volte si incontravano da Cesare anche le ragazze del paese e chissà quante confidenze avrà mai sentito dalle giovani. Graziana, Bruna, Ornella, Silvana -tanto per citarne alcune- spesso andavano in sartoria e portavano con sé un paio di cucchiai di zucchero. Lo scioglievano in un pentolino con manico e si gustavano lo “zucchero di guardia”, ovvero lo zucchero sciolto fino a farlo diventare una specie di medaglione color marrone. Un bel giorno il gruppo di ragazze si arricchì di qualche altra presenza e in un momento di euforia Cèser esclamò alle giovani: «Ma che “coas” fate!», una parola nuova per lui, forse sentita alla radio, per descrivere il “caos” che le giovani stavano facendo.