21.11.2024 Incidenti domestici da evitare.

Non c’è posto più accogliente e rassicurante come la propria casa ma spesso è proprio il posto in cui si rischiano degli incidenti più banali e non sempre di lieve entità; infatti, si stima che ogni anno in Italia ci siano 4 milioni di incidenti domestici soprattutto tra i bambini e gli over 65 anni. Le cause più comuni sono le cadute, i tagli, urti e schiacciamenti, ustioni, incidenti elettrici. Occorre fare attenzione a molte cose di uso quotidiano come gli elettrodomestici, le stufe, i tappeti su cui si può scivolare, attrezzi di cucina o del fai da te. Un piccolo consiglio per l’uso del gas in cucina: osservate sempre il colore della fiamma, se è di colore blu vuol dire che il gas sta bruciando in modo corretto e che la miscela è buona e brucia tra i 1500°C e i 1700°C; attenzione se la fiamma è di colore rossa, arancione o gialla! Vuole dire che la miscela di gas non è ricca di ossigeno e brucia male con una temperatura tra i 900°C e i 1200°C; può rilasciare monossido di carbonio, un gas molto tossico.  Se notate un colore anomalo, chiudete il gas, aprite le finestre e arieggiate le stanze.

20.11.2024 L’Influenza del Patriarcato di Aquileia sulle Valli del Natisone.

(Articolo di Elvira C. / parte 2 di 2)

L’influenza del Patriarcato di Aquileia non si limitò alla sfera religiosa, ma ebbe un impatto significativo anche sulla cultura e sulla lingua delle Valli del Natisone. Sebbene i patriarchi cercassero di latinizzare la regione, le Valli mantennero una forte identità slava, grazie alla presenza di popolazioni di origine slovena. Questo contatto tra cultura latina e slava portò alla creazione di una realtà culturale unica, in cui il friulano, l’italiano e lo sloveno convivono ancora oggi. Le chiese del patriarcato, come San Pietro al Natisone e altre parrocchie locali, divennero centri di diffusione culturale, dove si insegnavano le arti liturgiche e la lingua latina. Tuttavia, la lingua slovena continuò a essere parlata nelle comunità locali, soprattutto nelle aree rurali, portando alla nascita di una ricca tradizione orale che si riflette nelle leggende, nei canti e nei racconti popolari delle Valli. Sotto il dominio del Patriarcato di Aquileia, le Valli del Natisone videro anche un certo sviluppo economico. I patriarchi incentivarono l’agricoltura, la silvicoltura e l’allevamento, introducendo nuove tecniche di coltivazione e promuovendo la costruzione di mulini e infrastrutture per l’irrigazione. Inoltre, le Valli divennero un punto di passaggio per mercanti e pellegrini, contribuendo a un discreto sviluppo delle attività commerciali. I patriarchi concessero privilegi a diverse comunità locali, riconoscendo l’importanza strategica della regione. Tuttavia, le popolazioni delle Valli del Natisone si trovarono spesso a dover difendere i propri diritti contro le mire espansionistiche dei nobili e dei feudatari locali, generando tensioni che si protrassero per secoli. Con la caduta del Patriarcato di Aquileia nel 1420, quando la Repubblica di Venezia annesse i suoi territori, anche le Valli del Natisone passarono sotto il controllo veneziano. Tuttavia, l’eredità del Patriarcato continuò a influenzare la regione per molto tempo, sia in termini di organizzazione ecclesiastica che di identità culturale. L’influenza del Patriarcato di Aquileia sulle Valli del Natisone è stata determinante per lo sviluppo storico, culturale e religioso di questa regione. Anche se il potere del Patriarcato terminò secoli fa, le tracce del suo dominio sono ancora visibili nelle tradizioni, nelle chiese e nel patrimonio culturale che caratterizzano queste valli. Le Valli del Natisone rappresentano oggi un mosaico di culture e tradizioni, testimoniando l’importanza storica di Aquileia come crocevia di popoli e civiltà. Nella foto,le Valli del Natisone (dal web).

19.11.2024 L’Influenza del Patriarcato di Aquileia sulle Valli del Natisone.

(Articolo di Elvira C./  parte 1 di 2)

Le Valli del Natisone, situate nel Friuli Venezia Giulia, rappresentano un’area di confine tra l’Italia e la Slovenia, caratterizzata da una storia complessa e ricca di influenze culturali diverse. Tra le forze che hanno maggiormente plasmato il destino di queste terre, spicca il Patriarcato di Aquileia, un’entità ecclesiastica e politica che per secoli ha esercitato un’influenza profonda non solo dal punto di vista religioso, ma anche sociale, economico e culturale. Il Patriarcato di Aquileia: Un Potere Spirituale e Temporale. Fondato nel IV secolo, il Patriarcato di Aquileia divenne uno dei centri cristiani più importanti dell’Italia settentrionale. Aquileia stessa, una delle città più grandi dell’Impero Romano d’Occidente, divenne un baluardo del cristianesimo contro le invasioni barbariche. Con il declino dell’Impero, il Patriarcato acquisì sempre più potere, trasformandosi in un’entità autonoma capace di esercitare sia l’autorità spirituale che quella temporale su vasti territori, compresa l’area delle Valli del Natisone. Dal 1077, con il riconoscimento del potere temporale da parte dell’Imperatore Enrico IV, il Patriarcato di Aquileia divenne un vero e proprio stato ecclesiastico, con una giurisdizione che si estendeva su gran parte del Friuli, dell’Istria e su alcune zone della Slovenia e della Carinzia Le Valli del Natisone, note anche come “Benečija”, furono parte integrante del territorio controllato dal Patriarcato di Aquileia a partire dall’XI secolo. Questa regione montuosa, attraversata dal fiume Natisone, divenne un’area strategica per il Patriarcato sia dal punto di vista militare che economico. Le Valli, infatti, rappresentavano una porta d’ingresso verso i Balcani e i territori slavi, rendendole cruciali per il controllo delle rotte commerciali e dei flussi migratori. Il Patriarcato non solo si preoccupò di difendere queste terre dalle incursioni di popoli come gli Ungari, ma cercò anche di consolidare la propria influenza attraverso un’intensa attività missionaria. L’obiettivo era quello di cristianizzare le popolazioni locali, che all’epoca erano ancora legate a pratiche religiose pagane o avevano aderito al cristianesimo di rito bizantino. Per fare questo, il Patriarcato costruì chiese e monasteri, promuovendo il rito latino e favorendo l’insediamento di popolazioni fedeli al patriarcato. Nella foto Aquileia (dal Web)

18.11.2024 Tiglio: ricordi di una vita passata.

Riproponiamo un articolo di Renzo O. del 17 giugno 2011. Seconda parte (2 di 2).

Continuo il mio articolo precedente  descrivendo la casa dei Zupèel e molte altre di quei tempi. L’ognìisce (fogolar), posto al centro della stanza aveva, sì, la cappa dove venivano appese a nere catene  le pignatte dove si faceva il mangiare e si riscaldava l’acqua, ma non aveva il camino per portare fuori il fumo; il fumo creava una spessa nuvola che dal soffitto arrivava fino alla parte alta della porta e da qui poteva uscire perché i battenti erano formati da due parti di cui una, quella in alto, apribile verso l’esterno. Quella nuvola nera, oltre a depositare sulla parte superiore della stanza una grassa patina nera e lucida, lo “zìin”, faceva stare piegati i presenti…forse è per questo motivo che gli anziani erano quasi tutti incurvati (ad esempio Danilo  “Cavìc” di Ponteacco). I giovinastri di allora li prendevano in giro dicendo:”al bomo targal fige s’tabo?” cioè, “ti adoperiamo per tirare vicino i rami di fico” e farsi una bella mangiata! Piccole cattiverie; questo strumento usato per raccogliere la frutta e a forma di gancio si chiamava “Kiùka”. Gli infissi di allora erano pieni di spifferi e, nonostante il fuoco fosse vivo, la stanza non era mai calda abbastanza; quelli seduti attorno all’ognìisce erano bollenti davanti mentre avevano le schiene ghiacciate, così che ogni tanto erano obbligati a girarsi.

17.11.2024 Tiglio: ricordi di una vita passata.

Riproponiamo un articolo di Renzo O. del 17 giugno 2011. Prima parte (1 di 2).

Le lunghe serate invernali, il fogolar (ognìisce), le case annerite dal fumo, le storie raccontate attorno al fuoco. La famiglia dei Zupèel (Venuti) abitava in una vecchia casa nella parte superiore di Tiglio sopra la statale; era composta da due fratelli, una sorella e la vecchia madre Nuta (Benvenuta). I due maschi “strìzi” si chiamavano Berto e Feliz; la sorella Ida, vedova e senza figli (si era sposata a Milano dove prestava servizio come domestica), era tornata a casa dopo la morte del marito. La convivenza fra i tre non era delle migliori, litigavano continuamente, anche perché i due maschi non disdegnavano la “bùcia” ed erano spesso brilli. Ad ogni modo convivevano e collaboravano a portare avanti la loro piccola azienda agricola e il bestiame (galline, coniglie e, soprattutto il “còcio, il maiale). Vivevano con quello che producevano e con una pensione di guerra che Feliz aveva guadagnato in seguito ad una ferita causata da una pallottola che gli aveva trapassato la mandibola e che gli aveva deformato la bocca, per questo era sopranominato “Soba”, labbro. La famiglia era ospitale e spassosa e nelle fredde serate invernali, a casa loro, si radunavano molti paesani compresi i bambini; tutti raccolti intorno al fuoco si raccontavano gli ultimi accadimenti e si scambiavano esperienze del loro lavoro di contadini e allevatori. La vecchia Nuta era invece maestra nel raccontare storie agghiaccianti: di Scràtazi (folletti), strie (streghe), baladant (benendanti) e spaventosi spettri, strasìila. Stavano tutti ad ascoltarla a bocca aperta, soprattutto i bambini, col cuore che batteva all’impazzata. Storie che facevano rizzare i capelli e, per noi bambini, il dramma era quello di tornare a casa col buio dato che l’illuminazione allora non era granchè, fatta da poche lampadine di 10 – 15 candele in pochi punti luce. Fino alla piazzetta dei Bastiani si andava tutti in gruppo e poi ognuno prendeva una direzione diversa e, per affrontare il percorso, l’andatura si faceva più sostenuta, cantando e fischiando, senza mai voltarsi indietro; appena rientrati a casa si sbatteva l’uscio chiamando mamma e papà per sentirne la voce rassicurante.

16.11.2024 Un piccolo pensiero su Renzo.

(Articolo di Giacomo S.)

Le poche decine di metri che separano la mia casa (numero 108) e la casa di mia nonna Ilva (numero 10) erano per me spesso occasione di incontrare alcuni paesani e scambiare quattro parole: Maria, Edoardo, Beppina, Graziana, zia Ada, Claudia, il nostro caro Francesco. Facevo questo percorso anche più volte al giorno, già da piccolo. E quando ancora ero un bambino, la casa di Renzo e Bianca rimaneva “fuori dal giro”, separata dalla strada dall’alto muro di pietra, chiusa dal cancello nero, circondata dall’ampio giardino dove i pastori tedeschi (grande passione di Renzo) facevano una sicura guardia (devo ammettere che da bambino ne avevo molta paura). Era raro che si vedesse qualcuno, quindi Renzo per me, fino quantomeno all’adolescenza, era una persona pressoché sconosciuta. Ma più recentemente, complice forse il fatto che Renzo fosse andato in pensione, avevo avuto il piacere di conoscerlo meglio. Lo vedevo spesso potare i suoi molti alberi, rasare il prato, fare piccole riparazioni sul retro della casa. E molto spesso ci fermavano a parlare anche a lungo, uno di qua e l’altro di là del muro di cinta. Ogni volta aveva qualcosa di interessante da raccontare e condividere: dai consigli sulla botanica alle ultime elezioni politiche. E ogni volta dimostrava una conoscenza formidabile degli argomenti. Studiava, si interessava profondamente alle cose che lo appassionavano e gli piaceva moltissimo trasmettere le sue conoscenze agli altri. Aveva anche opinioni forti, ma sosteneva sempre le sue idee con argomentazioni fondate, frutto di ricerca e vero interesse. In ogni caso, sempre aperto al dialogo, e soprattutto sempre pronto ad aiutare gli altri, gratuitamente, senza dirlo troppo: gli dava soddisfazione mettersi al servizio degli altri e della comunità, soprattutto della nostra piccola realtà paesana, alla quale ha da subito aderito con entusiasmo e tanto ha dato e fatto. Lo ricordo sempre con un sorriso e lo immagino che sorrida anche lui con la sua adorata Bianca. Mancherà a tutti coloro che lo hanno conosciuto.

15.11.2024 La caduta del Muro di Berlino.

(Articolo in due parti- 2 di 2)

La situazione raggiunse il culmine il 9 novembre 1989, quando un funzionario del governo della Germania dell’Est, Günter Schabowski, annunciò in una conferenza stampa che sarebbero state introdotte nuove regole per i viaggi all’estero, includendo l’apertura immediata dei confini. La comunicazione fu ambigua e non chiara, ma la notizia si diffuse rapidamente tra la popolazione. Migliaia di cittadini della Germania dell’Est si riversarono spontaneamente ai posti di blocco del muro, chiedendo di essere lasciati passare. Sopraffatti dalla folla e senza ordini chiari da parte dei superiori, le guardie di frontiera alla fine aprirono i cancelli, permettendo ai berlinesi dell’Est e dell’Ovest di riunirsi in un clima di festa e incredulità. Le immagini di persone che abbattevano il muro con picconi e festeggiavano insieme divennero simboli potenti della libertà. La caduta del Muro di Berlino segnò l’inizio di una nuova era. Poco meno di un anno dopo, il 3 ottobre 1990, la Germania fu ufficialmente riunificata. Questo evento fu seguito dal crollo di altri regimi comunisti in Europa orientale, come in Cecoslovacchia, Ungheria, e Romania. Inoltre, la caduta del muro ebbe un impatto significativo sull’intera Europa, accelerando il processo di integrazione europea che culminò con la creazione dell’Unione Europea. La fine della divisione tedesca fu vista come una vittoria per i diritti umani e la democrazia, segnando la fine di un’epoca di tensioni geopolitiche e inaugurando un periodo di speranza e rinnovata collaborazione internazionale. La caduta del Muro di Berlino rimane un simbolo di speranza e cambiamento. Rappresenta il potere delle persone comuni di sfidare l’oppressione e di abbattere le barriere, sia fisiche che ideologiche. Anche a distanza di decenni, le lezioni di quel 9 novembre 1989 continuano a ispirare movimenti per la libertà e la democrazia in tutto il mondo, ricordando a tutti noi che anche i muri più solidi possono essere abbattuti quando la volontà del popolo è forte.

14.11.2024   La Caduta del Muro di Berlino.

(Articolo in due parti – 1 di 2)

La caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989, rappresenta uno degli eventi più significativi del XX secolo. Questo avvenimento non solo ha segnato la fine della Guerra Fredda, ma ha anche segnato un momento cruciale nella storia europea, aprendo la strada alla riunificazione della Germania e al crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale. Il Muro di Berlino fu eretto nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 dalle autorità della Germania dell’Est (Repubblica Democratica Tedesca, RDT) con l’obiettivo di fermare l’esodo di cittadini verso l’ovest. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Berlino era stata divisa in quattro zone di occupazione: americana, britannica, francese e sovietica. Tuttavia, le differenze ideologiche tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica portarono alla creazione di due stati tedeschi nel 1949: la Germania Ovest (Repubblica Federale Tedesca, RFT) e la Germania Est (RDT). Negli anni precedenti la costruzione del muro, circa 2,7 milioni di tedeschi dell’Est avevano attraversato il confine per trasferirsi nella più prospera Germania Ovest, creando un’emorragia di forza lavoro qualificata e un danno economico significativo per la RDT. Per fermare questa migrazione di massa, il governo della Germania dell’Est decise di costruire una barriera che separava fisicamente Berlino Ovest da Berlino Est e dal resto della Germania orientale. Il muro, lungo oltre 155 km e alto circa 3,6 metri, divenne presto il simbolo della “Cortina di Ferro” che divideva l’Europa in due blocchi contrapposti: quello capitalista a ovest e quello comunista a est. Sorvegliato da torrette di guardia, filo spinato e soldati armati, il Muro di Berlino rappresentava non solo una divisione fisica, ma anche ideologica e politica. Gli anni ’80 furono caratterizzati da un crescente malcontento tra i cittadini della Germania dell’Est, che erano stanchi delle restrizioni alla libertà personale e delle difficili condizioni economiche. Inoltre, l’ascesa al potere di Michail Gorbačëv in Unione Sovietica portò a una serie di riforme, note come “glasnost” (trasparenza) e “perestrojka” (ristrutturazione), che favorirono un clima di maggiore apertura politica e dialogo con l’Occidente. Nel frattempo, movimenti per i diritti civili e proteste pacifiche iniziarono a diffondersi in tutta la Germania dell’Est, culminando nelle famose manifestazioni di massa a Lipsia nell’autunno del 1989. Queste proteste, conosciute come le “Manifestazioni del Lunedì”, radunarono centinaia di migliaia di persone che chiedevano riforme democratiche e libertà di movimento. (continua…).

Nella foto un frammento del muro di Berlino acquistato da Francesco C. presso il Museo del Muro a Checkpoint Charlie.

13.11.2024  Le Tradizioni Friulane per San Martino.

Nel Friuli Venezia Giulia, la festa di San Martino è caratterizzata da numerose tradizioni che variano leggermente da una località all’altra, ma tutte condividono un senso di comunità e di celebrazione. La Festa dei Bambini e i “Cjalsons di San Martin”: Uno degli aspetti più caratteristici della celebrazione è la “questua di San Martino”, una tradizione particolarmente sentita dai bambini. In molte località friulane, i bambini si travestono con abiti semplici e indossano maschere, andando di casa in casa per chiedere dolci, frutta secca e piccoli doni, recitando filastrocche in dialetto friulano. In cambio, offrono canti e poesie dedicate al santo. Questa tradizione è simile ad Halloween, ma con un significato legato alla figura di San Martino. Un piatto tipico preparato per l’occasione sono i “cjalsons di San Martin”, una sorta di ravioli dolci o salati, ripieni con ingredienti che variano a seconda della zona, come patate, uvetta, cannella, e talvolta spezie. I cjalsons rappresentano l’abbondanza dei raccolti autunnali e il calore delle famiglie riunite. Il Falò di San Martino: Un’altra tradizione suggestiva è l’accensione dei falò, chiamati “fogarons di San Martin”. In molte comunità, la sera dell’11 novembre, vengono accesi grandi falò nelle piazze o nei campi. Questi fuochi, che simboleggiano la luce che sconfigge l’oscurità in arrivo con l’inverno, sono un momento di aggregazione sociale, dove la gente si riunisce per cantare, danzare e gustare insieme il vino novello. I falò rappresentano un rito di purificazione e di buon auspicio per il nuovo ciclo agricolo che si apre. Le Fiere e i Mercati: Un altro elemento centrale della festa di San Martino in Friuli sono le fiere e i mercati. Questi eventi, che si svolgono in molte cittadine della regione, offrono l’occasione di acquistare prodotti locali e artigianali. Sono momenti di festa che celebrano non solo la fine della stagione agricola, ma anche il senso di comunità. Nelle piazze si possono trovare bancarelle con castagne arrosto, vin brulé, dolci tipici e salumi, creando un’atmosfera di festa e convivialità.

12.11.2024  Festa di San Martino a Cividale.

La festa di San Martino a Cividale del Friuli, che si celebra l’11 novembre, è uno degli eventi più sentiti e ricchi di tradizione in questa antica cittadina friulana. Cividale, con il suo centro storico affascinante e le profonde radici medievali, diventa il palcoscenico di una serie di celebrazioni che uniscono tradizione, cultura e convivialità. Questa festa non è solo un omaggio al santo, ma anche un’occasione per ritrovare il legame con il passato contadino della regione.La festa di San Martino rappresenta un momento di transizione tra l’autunno e l’inverno, un periodo in cui si tirano le somme dei raccolti e si gode dei frutti della terra. È una festa che, pur avendo origini religiose, ha assunto connotazioni prevalentemente popolari e legate alla vita contadina. Uno degli aspetti più caratteristici della festa di San Martino a Cividale è la “fiera di San Martino”, un evento che attira numerosi visitatori da tutta la regione. Per le strade della città si snodano bancarelle che offrono prodotti tipici locali, come salumi, formaggi, miele, e ovviamente il vino novello, che viene assaggiato per la prima volta proprio in occasione di questa festa. La frase “A San Martin, ogni mosto diventa vin” è infatti un detto popolare che simboleggia l’apertura delle botti di vino novello, segnando così la fine della vendemmia. Un altro elemento tradizionale è la benedizione dei cavalli, una pratica che risale ai tempi antichi, quando il cavallo era un prezioso alleato nei lavori agricoli. I cavalli vengono ornati a festa e sfilano per le vie del centro, ricevendo la benedizione in piazza. La festa di San Martino a Cividale è anche un’occasione per ritrovarsi con amici e familiari, condividendo momenti di convivialità. Oltre al vino novello, protagonisti della tavola sono i piatti tipici della cucina friulana, come la gubana (un dolce ripieno di noci, uvetta e spezie), la polenta con i funghi e la carne alla griglia. La festa di San Martino a Cividale del Friuli è molto più di una semplice ricorrenza religiosa: è un momento di comunità, di celebrazione della tradizione e di valorizzazione dei prodotti locali. In un’epoca di modernità e frenesia, questa festa rappresenta un ritorno alle radici, un modo per riscoprire il piacere delle piccole cose, della buona cucina e della condivisione, celebrando la storia e la cultura friulana in un contesto unico e suggestivo.