La carne bovina, nei cosiddetti tagli nobili, era generalmente destinata alla vendita, mentre i tagli di seconda qualità e le parti meno nobili, quali le trippe, erano destinate al consumo popolare. Sono infiniti i modi di cottura della carne bovina e probabilmente molte ricette scritte sono andate perdute. Sulle nostre tavole non mancavano le uova, celebrate in un’infinità di modi tra frittate, sode, strapazzate, con il frico, in “funghet”, con pancetta o salame. La produzione orticola e da campo forniva buone quantità di cavoli, verze, zucche, cipolle, aglio, sedano, porro e rape per la brovada. Fino ad alcuni decenni fa ogni famigia preparava il proprio formaggio, il burro e la ricotta, a seconda della disponibilità di latte, principalmente di origine bovina. L’unico pesce disponibile oltre ai prodotti ittici di fiume, era il baccalà un tempo considerato il pesce dei poveri. Amilcare lo vendeva sia umido, già preparato per la cottura, che secco. Oggi è una costosa specialità che si consuma con la polenta, come un tempo.
26.09.2020, Dalla storia della nostra cucina (2/3)
La cucina locale, quella che possiamo assaporare durante la manifestazione gastronomica “Invito a pranzo nelle Valli”, si consolidò solo nell’Ottocento, quando a disposizione delle famiglie vi furono maggiori varietà di ingredienti, pur con il sussistere di ampie sacche di denutrizione e malattie legate alla cattiva alimentazione. La pastasciutta è arrivata solo negli anni ’60 se non con le “tajadeje”, striscioline di pasta fatta in casa cotta nelle minestre. Prima trionfavano a pranzo e a cena proprio le minestre e i minestroni, che oggi trovano sempre più seguaci considerando i limiti del piatto di pasta. Le minestre erano sempre saporite, specie con l’arrivo di patate, piselli, verze e fagioli, mentre sulle tavole arrivò anche il riso prodotto dalle parti di Pocenia, dove le risorgive potevano allagare i campi. Il brodo fu dapprima una rarità, poi si trasformò nel primo piatto tipico delle nostre domeniche, accompagnato a un pezzo di muscolo. Il maiale costituiva il maggior apporto di proteine e grassi dell'”homus valligianus”, con carni fresche nel giorno della macellazione e con insaccati nel periodo lungo di conservazione. La sempre maggiore disponibilità di sale e di spezie portò un notevole sviluppo della produzione di norcineria. Erano destinate al consumo immediato le carni bianche da cortile.
25.09.2020, Dalla storia della nostra cucina (1/3)
Erano due i forni attivi in paese nella prima metà del Novecento: Celesta e Markici. In essi si cuocevano le gubane, le focacce, le colombe, il pane e a volte gli arrosti, quando il forno era ancora caldo da precedenti cotture. Era un autentico privilegio possedere un forno, perché nella cucina dei poveri non si andava oltre la polenta costituita anche da cereali ancor più poveri (quali il miglio e il sorgo), oppure il pesce pescato nel Natisone, fiume che sfamò molti dei nostri antenati. Il pane era piuttosto costoso e dunque un alimento proibitivo, mentre oggi se ne getta in grandi quantità nel bidone. Il costo del sale nella cucina del periodo veneziano era anch’esso proibitivo perché gestito in monopolio dalla Serenissima. Il sale era comunque un problema: partivano da Ponteacco in bici e raggiungevano l’emporio del sale di Trieste con un viaggio che durava almeno due giorni. Il mais, la patata e i fagioli giunsero nelle Valli verso il Seicento e la loro coltivazione fu favorita dalla Serenissima proprio per combattere la fame. Si trattò di un’autentica rivoluzione culinaria
24.09.2020, Un caso di morte apparente?
Oltre cinquant’anni fa si verificò un malore fatale a Brischis, proprio all’incrocio con la strada per Rodda. Emilio (Milio) Iussa, fratello di Beput, zio di Silvana e Savina cadde a terra e per lui non ci fu nulla da fare. Era il 27 gennaio, una giornata molto fredda. Conclusi i rilievi di legge, il corpo del nostro sfortunato paesano fu portato a casa e sistemato sul suo letto. Dopo alcune ore, a molte ore dal decesso, arrivò la bara per la sistemazione in essa del corpo. Incredibile! Nonostante la giornata fredda, ad almeno 6 o più ore dalla morte, nonostante la temperatura della camera fosse di poco sopra lo zero (in quei tempi ghiacciava anche l’acqua del bicchiere del comodino), la Nora, indimenticata moglie di Giuseppe, fratello del defunto, si accorse che il letto su cui era stato depositato il corpo era ancora caldo. Un mistero che nessuno riuscì a spiegare. Fu un caso di morte apparente? No, perché tutte le persone che si avvicendarono nella veglia, non notarono nulla di anormale se non le condizioni di una persona ormai senza vita. Ma, come si dice, la leggenda continua …
23.09.2020, Lupi, peste e fame nella prima metà del Seicento a Ponteacco e nelle Valli (2/2)
Della calamità dei lupi parlarono molti parroci e la cronaca registrò donne e bambini sbranati da questi animali. Nel 1630 il Friuli fu colpito da un’epidemia di peste che non raggiunse i paesi e borghi più in quota delle Valli, ma fece morti nel fondovalle. Durò circa sei mesi. L’epidemia si sviluppò da Pordenone e in poco tempo raggiunse Cividale, dove fu istituita una guardia sanitaria piuttosto efficiente, che mise al riparo molta popolazione. In quegli anni (circa 1630) arrivò l’ultimo dei grandi flagelli: la fame causata da alcuni anni di carestie che decimarono la popolazione per gli stenti. A Cividale morirono di inedia più di cento persone e i bambini “da comunione” deceduti non se ne contano, perché i piccoli non rientravano nelle statistiche. Problemi di fame anche nel relativamente recente 1816: non ci fu sole, ma freddo e piogge acide provenienti dal NordEuropa. Nevicò a settembre fino a fondovalle. Ciò impedì la semina e la maturazione del prodotti. L’inverno fu durissimo. Numerosi questuanti furono trovati senza vita in stalle, lungo le strade, nei portici delle chiesette votive.
22.09.2020, Lupi, peste e fame nella prima metà del Seicento a Ponteacco e nelle Valli (1/2)
Negli annali delle nostre parrocchie si trovano note sulle invasioni di lupi a incominciare dal 1597 fino al 1633, anno in cui i Luogotenenti Veneti organizzarono cacce e destinarono premi per la loro cattura. Nel 1631, scrive una nota dell’archivio della parrocchia di San Pietro al Natisone, alle invasioni, alla guerra, alla fame e alla peste, si aggiunse un quarto flagello, l’invasione di lupi provenienti dall’odierna Slovenia, che fecero strage di pecore e persone. I Rettori veneti di Terraferma scrissero: “Havendo i lupi in vari luoghi al di qua e al di là del Tagliamento e al di qua e al di là del Natisone distrutte, et devastate molte persone et centinaia e centinaia di ovini, molte cacce da noi organizzate sono per estirpar codesti rapaci” (luogotenente Bernardo Polani); anche il suo successore, Girolamo Venier nella sua relazione del 1632 scrisse: «È quel paese a oriente e a occidente di Udin grandemente travagliato da l’insidiosa rapacità de lupi, che lasciando gl’anemali schiusi ne pascoli delle Valli, miseramente devorano le creature. A Vostra Serenità (doge) portai gli avisi et l’accrescimento della taglia dei 10 ducati».
21.09.2020, Ieri al Centro
Ultimamente si vedono o sentono molte pubblicità inneggianti il “sottocosto”. Bene, ieri anche da noi abbiamo avuto una domenica “sottocosto” per la scarsa presenza di soci. A conti fatti, non siamo riusciti a coprire le spese. Certo, il nostro fine non è di carattere economico, solo per sottolineare che non sempre le ciambelle riescono con il buco. I presenti comunque hanno trascorso un bel momento di condivisione. Ci saranno tempi migliori, senza dubbio. Si è parlato di due argomenti principali: la scomparsa di Stefano e le iniziative pro-Verdiana Diaris. La morte di Stefano ha lasciato tutti senza parole, sebbene consapevoli delle sue precarie condizioni di salute. Domenica 06 settembre ha trascorso in compagnia alcune ore al Centro, sempre combattivo, come se la malattia non esistesse. Numerose persone hanno chiesto notizie sul funerale, che per volontà della famiglia non sarà eseguito. Indicazioni sul Rosario sono contenute nel box delle “Curiosità dal circondario”. Per Verdiana non è esclusa una giornata a tema, ovvero un pranzo o una cena dedicati alla nostra paesana. Si tratterà di una raccolta fondi probabilmente compresa nell’offerta minima per la cena o pranzo. Saremo sicuri di quest’iniziativa non appena il Consiglio esaminerà la proposta. Ultima domenica d’estate, da oggi si cambia. Arriverà in serata il maltempo con le prime avvisaglie della nuova stagione che inizierà domani alle 15:30 con l’equinozio d’autunno (identica durata del giorno e della notte in tutto il pianeta). Auguriamo una piacevole settimana.
20.09.2020, Il gioco dei “kighi”
Nelle lunghe domeniche d’estate, oppure il sabato sera, in piazza si giocava al kighi. La piazza era il cuore pulsante del paese. In cosa consisteva questo gioco? Facciamo un passo indietro. Emaz, proprietario dello stabile dove poi ci fu l’osteria, al ritorno dall’America con la sua prima moglie Gina, aveva portato con sé una serie di 4 birilli di legno alti circa 40 cm, perfettamente torniti e verniciati, con la base un po’ più stretta rispetto alla sezione centrale del pezzo di legno. C’era un kigo più piccolo, alto circa una 15/20-ina di centimetri che fungeva da “pallino” nel lancio della boccia e nella speranza che con l’effetto-domino cadano gli altri quattro birilli. Si formavano autentici capannelli di tifosi che giudicavano il tiro e il suo effetto sulla scena finale. Teatro del gioco era l’ombra del vecchio gelso e la piazza, autentica finestra sul nostro paese come scrisse F.S. nel suo simpatico libretto dedicato a Ponteacco. Il gelso con le sue radici non permetteva tiri precisi e la presenza di quegli intrecci legnosi era una variante da considerare. Non esisteva l’asfalto, ma il manto di ghiaia, forse meno insidioso delle buche contemporanee presenti nell’asfalto vicino alla cappella. Con uno scopino di saggina ogni tanto si dava una ripulitina al piano di gioco per permettere lo scorrimento della boccia, anche quella di legno. Emaz ripudiò la signora Gina, che credeva sterile, per poi sposarsi con la signora Gemma, matrimonio senza eredi. Saranno stati i kighi o le palle di legno? … è una battuta, solo per chiudere questa notizia!
19.09.2020, Abbiamo perso un altro socio
Il 2020 è un anno che è stato particolarmente sfortunato: ne abbiamo provate di tutti i colori e mancano ancora tre mesi e mezzo alla sua fine. L’ultima brutta notizia riguarda la scomparsa del socio Stefano Petricig (51) di Merso di Sotto. Sua sorella Marzia, Consigliere della Pro Loco, perde con lui l’ultimo affetto della sua famiglia d’origine. Dopo la scomparsa della mamma, del papà ad aprile durante il lockdown, ora si ritrova senza quel legame speciali che hanno due fratelli che si vogliono bene. Stefano è stato letteralmente aggredito da un male irreversibile, senza scampo, che ha affrontato con grande dignità e senso di sopportazione, consapevole della sua condizione di salute sempre più precaria. Due domeniche fa era con noi al Centro. Ha voluto passare un po’ di tempo con i suoi amici del paese, il cognato Tonino, Paolo e molti altri. Il nostro pensiero va anche alla moglie, Caterina Raccaro, che conta in paese numerosi parenti di secondo grado. A Caterina le mancherà il mondo, dopo aver curato e amorevolmente assistito il marito per molti anni. Abbracciamo con affetto Marzia, sussurrandole all’orecchio che non è sola, che le vogliamo bene, che soffriamo tutti per lei.
18.09.2020, La triste storia di Verdiana
Forse non tutti conoscono la commovente vicenda di Verdiana Diaris (46), un sorriso un tempo smagliante, pieno di vita. Verdiana è la figlia di Nello Diaris di Ponteacco, deceduto nel 1978 in un tragico incidente sul lavoro accaduto a Monselice PD dove si era trasferito con la mamma Letizia e la famiglia. La sua scomparsa aveva sconvolto il paese e soprattutto aveva lasciato la giovane moglie Verena e la piccola Verdiana, per la quale tutti hanno versato una lacrima durante il funerale. Un’altra sciagura si è abbattuta sulla famiglia Diaris: la sfortunata Verdiana, che conta in paese numerosi cugini in secondo grado, tutti trasferiti altrove, il 24 novembre scorso è caduta dalle ripide scale della sua abitazione poco fuori Londra, dove abitava da molti anni e dove svolgeva un’attività collegata all’ippica, con numerosi riconoscimenti e trofei. Anni fa un cavallo le aveva sferrato un calcio al volto, che le aveva procurato una preoccupante lesione. Nella caduta all’indietro dalle scale si è procurata la frattura di due vertebre cervicali che oggi la vedono paralizzata: può muovere la sola spalla sinistra ed è assistita giorno e notte da un respiratore polmonare. Il 7 ottobre prossimo, a quasi un anno di distanza, Verdiana lascerà l’ospedale e dovrà tornare a casa, ma la sua situazione sanitaria non le permetterà di rientrare nella sua abitazione di sempre, perché non adatta alle sue condizioni di salute e certamente avrà bisogno di una accurata assistenza 24 ore al giorno. Si è aperta una sottoscrizione coordinata dall’Assessore alla cultura del Comune di Romans d’Isonzo, Alessia Tortolo, che ha organizzato un’asta solidale domenica 6 settembre scorso. Erano presenti più di 400 persone interessate all’acquisto di opere d’arte e a fine giornata sono stati raccolti ben 15.000 Euro. C’è il rammarico che in paese nessuno sapeva della triste vicenda di Verdiana e solo Vel è riuscito ad inquadrare lo stato delle cose. Il Consiglio della Pro Loco deciderà nella prossima seduta se partecipare o meno alla raccolta-fondi per Verdiana, considerato che Nello e i suoi fratelli Rolando, Silvano e Adriana hanno fatto parte del nostro paese.